2.

Il canto III del «Paradiso»

Il canto III del Paradiso va anzitutto considerato nella funzione che esso ha nell’inizio della nuova cantica, nel calcolo ispirato di Dante creatore del nuovo mondo paradisiaco, nella sua dimensione poetica impostata già grandiosamente come sinfonia cosmica dal I canto e nel II (le macchie lunari) nei termini di un’espressione di verità superiore entro un superiore paesaggio attinto nelle forme di una esperienza di quel mondo lunare, che non è solo il primo cielo nella costruzione tolemaica e aristotelica del regno celeste, ma il piú vicino e poetico al vagheggiamento degli uomini, al loro affascinato incanto per quella luce tenue e perfetta, aristocratica ed elegantissima, termine di fantasticheria e di visione diretta. Il canto III, infatti, imposta la nuova esperienza paradisiaca nella piú sicura, evidente e affascinante creazione di un mondo e di un paesaggio lunare ed entro questo in una reinterpretazione della nuova dimensione dell’intimo, in forma piú diretta di esperienza interiore confortata da ricordi affettivi, nel contatto con le anime in un preciso gradino dell’intera esperienza paradisiaca. Mentre il raccordo con i canti lunari immediatamente successivi (IV e V) svolge ed amplia il tema della beatitudine comune e della sua graduazione, arricchendo à rebours la localizzazione del canto III, la complessità dei tematici termini della pace, del volere, del rapporto fra Empireo e sfere che caricano in forma di dubbi inespressi e irrisolti la tensione di scoperta e di contatto del canto III.

Ma soprattutto giova insistere (nella certezza della forza di unità e delle ragioni dei singoli canti e del loro rapporto non solo concettuale, ma di struttura poetica con il resto del poema e delle singole cantiche) sul fatto che, nella impostazione della esperienza paradisiaca, era essenziale a Dante questa esperienza piú intima dei valori e toni del Paradiso, delle sue reali persone e che, mentre l’umanità aristocratica e affabile delle anime promesse a Dio e mancate ai voti per volontà altrui si presta mirabilmente ad avviare il contatto piú affabilmente, pur come segreto e magico, con le anime del Paradiso in generale (e il mondo lunare era appunto il piú adatto a questo primo incontro con il paesaggio del Paradiso), cosí era necessaria alla poetica paradisiaca una figura concreta che si presentasse a Dante dai suoi ricordi privati come una figura di gentilezza e di femminile forza, era necessario salire da una zona giovanile dell’anima legando l’inizio dell’ascesa paradisiaca ai ricordi piú giovanili, al fervore di un recupero della memoria affettiva. Tale persona era Piccarda, creatura della sua gioventú e della sua esperienza giovanile e della sua scelta aristocratica di persone e di affetti soprattutto femminili (da cui riporta toni rapiti ed aristocratici della Vita Nuova e delle Rime, raffinati e rinforzati dalla lirica piú potente del Paradiso), una figura da Paradiso in terra, religiosa e bella, obbediente, fragile e nobilitata dalla violenza subita, ricca di allusioni personali, individuali, ma adatta ad un rapporto corale (la sua vita claustrale, il suo santo «conformismo» religioso), come già nel canto XXIV del Purgatorio affiorava fra i ricordi aspri e dolci della gioventú e dei rapporti con Forese, richiesta dall’ansia di Dante:

Ma dimmi, se tu sai, dov’è Piccarda [...]

La mia sorella, che tra bella e buona

non so qual fosse piú, triunfa lieta

nell’alto Olimpo già di sua corona.

(vv. 10, 13-15)

Versi che preparano l’episodio paradisiaco e che ne intonano (con la componente di bellezza e di bontà: nell’episodio di bellezza non si parla, ma tutto conduce ad un’immagine di suprema gentilezza e il suo linguaggio e i suoi modi sono linguaggio tipico di una calocagatia cristiana e di una eleganza di essere cui la bellezza è essenziale) l’accento di letizia (parola naturalmente paradisiaca e che diventa perciò simbolo espressivo di questa nuova condizione) proprio e solo nell’accenno di Piccarda, sí che essa ben a ragione appare poi come la prima persona conosciuta da Dante nella sua nuova esperienza, cosí come essa ricongiungeva il Paradiso alla zona piú fervida e pura della vita, la giovinezza, e a tutta un’esperienza di gentilezza e aristocrazia spirituale quale è quella della lirica giovanile dantesca. E quindi con la possibilità (tutt’altro che casuale nel grande poeta della Commedia, nell’artista e perciò non semplice letterato chiuso in un cerchio di esperimenti ed esperienze tecniche e letterarie, come qualcuno ha voluto unilateralmente rivedere la sua vicenda di poesia e la sua personalità di «personaggio» nel poema) di richiamare intorno ad essa tutti i caratteri e toni e stilemi di quella zona. Donde gli echi chiari della Vita Nuova in questo canto: i modi adoranti, ma privati della sospirosità piú giovanile, in Dante e nella presentazione di Piccarda. Echi che tornano per Beatrice in varie parti del Paradiso (si ricordi nel canto XV il rapporto chiaro fra una frase della Vita Nuova, III, 1: «me parve allora vedere tutti li termini de la beatitudine», e i versi «ché dentro a li occhi suoi ardeva un riso / tal, ch’io pensai co’ miei toccar lo fondo / de la mia gloria e del mio paradiso» – vv. 34-36), ma che qui piú sottilmente si assommano intorno a Piccarda a ricrearle, nel nuovo tono, l’atmosfera di adorazione giovanile che ben si conveniva – con un di piú di sobrietà e di suprema misura – a questa esperienza, a questo incontro, che annoda dall’intimo il primo incontro con persone del Paradiso e l’incontro giovanile con una persona vagheggiata per la sua bellezza e purezza in una zona di affetti quasi miracolosi per novità, come sono quelli con cui Dante supera il termine della esperienza infernale e purgatoriale con una ripresa appunto dell’età piú intatta e sempre d’altronde senza una esplicita e disturbante nota di nostalgia e di rimpianto. Il colore perlaceo della figura femminile che si rievoca nel paragone individuante un’atmosfera e un colore delle persone e del cielo lunare («color di perle ha quasi, in forma quale / convene a donna aver, non for misura» – Vita Nuova, XIX, 11, 47-48), gli atteggiamenti adoranti di Dante («levava li occhi miei bagnati in pianti» – ivi, XXIII, 25, 57) e di Piccarda («quel ch’ella par quando un poco sorride» – ivi, XXI, 4, 12), l’emblema di un’esperienza diretta insostituibile («che dà per li occhi una dolcezza al core / che ’ntender no la può chi no la prova» – ivi, XXVI, 5, 10-11).

Tutto è riportato in un fervore piú intenso e misurato, in un nitore trasparente e limpido, a cui si intona il linguaggio composto ed eletto, l’andamento delle parlate e delle introduzioni come onde a spirale con clausole misurate e composte, l’aristocrazia ed altezza dei moduli scolastici e mistici, in cui nulla è di scomposto e di forte, nulla di drammatico e di acerbamente elegiaco: ciò che ci spiegherà poi in parte come l’acme della storia di Piccarda («Iddio si sa qual poi mia vita fusi») vada sottratta a una lettura romantica e drammatica e risentita, e inquadrata in una interpretazione corretta del tono di tutto il canto che vive un’estasi confinante col magico, ma sempre misurata, nitidamente scandita, approfondita e infrenata anche nel rapporto di sollecitazione delle domande piú stimolanti di Dante e delle risposte ardenti-misurate, fervide e caste di Piccarda. A cui corrisponde lo stesso giro indiretto e mediato dei periodi («se non come quella / che vuol simile a sé tutta sua corte»), il giuoco prezioso e composto (profondità di note recuperate nella musica) delle assonanze e rime, di ripetizioni di rime interne («profondi-fondi; cantando-cantando; beati-beato; regno-regno; vôti-voti»), il suggello elegante e perfetto, scandito e limpido delle clausole («ciò ch’ella cria e che natura face»; «del nome tuo e de la vostra sorte»; «generò ’l terzo e l’ultima possanza»), che con la duplicità dei termini assicura come una conclusione di chiarezza e di articolazione senza alone e senza risonanza.

Mentre tutta la perfetta luce e l’armonia del paesaggio si delineano in una coerenza artistica di estrema chiarezza ed eleganza, come il simbolo stilistico della «perla in bianca fronte» e della consistenza lunare e acquatile delle figure. E con uno svolgimento perfetto di tempi e movimenti in cui la nitidezza dell’articolazione lineare, tematica e dialogica è pervasa da un intimo fervore e da una quieta tensione spirituale e poetica che ricava la sua forza dall’incontro della nuova esperienza intima delle qualità, condizioni, persone paradisiache, e dei grandi temi coerenti della volontà, della carità, della pace che sono appunto i temi guida del canto e della sua funzione di vera introduzione all’animus paradisiaco.

Il primo «tempo» del canto (vv. 1-33), in cui ancora è assente Piccarda, si suddivide in quattro movimenti (vv. 1-9; 10-18; 19-24; 25-33) e costituisce l’introduzione della salda unità poetica del canto.

Il primo movimento raccorda il nuovo canto con il canto II ed è contraddistinto da un moto di energico slancio, come sarà il finale; moto di impeto affettivo-spirituale, di riconoscenza per Beatrice che ha rivelato a Dante – mediante un severo procedimento scolastico avvivato dall’ansia di verità che accomuna docente e discente – il dolce aspetto di una bella verità (la ragione delle macchie lunari), di una verità scientifica e letificante nel suo significato di rivelazione di un particolare della costituzione dell’universo: «bella verità», «dolce aspetto», termini chiari di una poetica scientifico-spirituale che ripropone, in forma di bellezza e di dolcezza, il bene supremo di una acquisizione di verità attraverso l’esperienza e il dialogo che sarà anche la forma di acquisizione ulteriore del colloquio con Piccarda e di tutti gli ulteriori colloqui con Beatrice e con gli altri beati. L’entusiasmo per la verità ottenuta attraverso l’esperienza e il dialogo (non manualistica e fredda, ma corrispettivo di una tensione spirituale che ha bisogno di particolari mediatori umani) si associa alla riconoscenza per Beatrice, non fredda ed estranea maestra, ma termine concreto di affetto, di cui si richiama, in quest’eccezionale impianto della spiritualità e tensione affettiva del Paradiso, il carattere di donna amata («quel sol che pria d’amor mi scaldò ’l petto»): e lo scaldare dell’amore rafforza lo slancio affettivo del senso bello e dolce della verità e ad esso corrisponde l’erezione sicura e pur composta («tanto quanto si convenne») – prima spia della misura che regola l’intensità del canto – di Dante disposto ad assicurare l’acquisizione del nuovo grado di verità necessaria al circolo perfetto dell’ispirato didascalismo paradisiaco. Ed è su questo slancio interiore e fisico che si inserisce, in termini ancora coerenti al modulo del movimento, l’apparizione della prima visione paradisiaca. Visione distrae da confessione, e dalla nuova potenza della visione nasce il profondo movimento successivo di assoluta immedesimazione con il termine sin qui solo evocato nella sua potenza simile a quella della mossa di Dante disposto alla confessione e anche stilisticamente assicurato dalla coerenza di un chiaro procedimento di queste prime tre terzine incatenate fra loro dalla forza delle parole-rima in doppia consonante (e con assonanza forte fra le prime due rime raccolte poi sinteticamente al verso 4 e dall’intreccio dei pronomi personali e richiamata nel centro del verso 8: «stretto»), con un giuoco intenso che non deve apparire casuale una volta che si sia compresa l’ascendenza paradisiaca delle «rime» e la natura interna morale-poetica del tecnicismo dantesco: ché queste insistenze che diversamente riappaiono (ma in termini di estasi e di visione) in tutto il canto son qui a ribadire lo slancio e la partecipazione appassionata di Dante alla verità scoperta e alla visione che appare a distrarlo in una nuova e piú profonda concentrazione spirituale-fantastica.

Cosí, annunciata dalla avversativa («ma visione apparve») e nei modi piú aperti ed energici del primo movimento, la visione, di cui si anticipa il carattere piú immediato e didascalico attraverso la parola-tema, richiede una chiara pausa di lettura, una sospensione di conversione dall’energico alla lucida concentrazione visionaria, per affiorare dalla memoria evocatrice piú profonda in un ritmo piú lento e perfetto, in cui l’immergersi incantato e limpido del poeta è riprodotto prima nei modi della visione, poi nella sua diretta ma cosí mediata e fantastica realtà. In tal senso il doppio paragone che apre la visione (e un paragone piú letterario sigla la conclusione della sua presentazione in un perfetto circolo di modi stilistici) è ben necessario proprio a intonare i modi della visione, del suo affiorare nitido e lento al cui fondo spicca la realtà della visione: «tali vid’io piú facce a parlar pronte».

Quel paragone intona, in realtà, non solo la visione, ma tutto il rarefatto e prezioso ritmo e modulo figurativo-musicale del canto e se non costituisce affatto – come apparirebbe da quella lettura impressionistica e antologica che dobbiamo rifiutare specialmente per una poesia cosí organica e severa come quella dantesca – una bella immagine a sé stante, una pura zona distaccata di ineffabile, una goccia lirica di suprema purezza, esso, con il suo doppio svolgimento e con il suo coerente riferimento ad una realtà fisica («vetri» e «perla in bianca fronte») di eccezionale luminosità visiva e di estrema purezza da sensazione che confina con la spiritualità, realizza effettivamente di per sé la realtà fantastica della visione, il suo carattere di nitidezza del mezzo da cui traspare (acqua nitida e trasparente, vetri trasparenti e tersi) e la sua debole forza visiva che si fondono effettivamente entro questa prospettiva visiva e musicale (ma in cui campeggiano le «pupille» e le «postille» dei visi, in un loro totale carattere di lucidità e di sommarietà scolorita), ché il colore è del tutto assente da questo canto e da questa visione in cui il disegno grafico e musicale prevale sino ai termini estremi di un’arte aristocratica e scorporata di cui non trovo l’uguale nell’arte medievale.

E, come dicevo, il paragone finale (chiaramente ovidiano e con il di piú della suggestione incantata di Narciso: «Fons erat inlimis, nitidis argenteus undis. [...] Corpus putat esse quod umbra est» – Metam., III, 407, 417-, risviluppato, senza il peso coloristico dell’argenteus, nella comunanza delle acque nitide e tranquille con le nitidae undae) sigilla perfettamente, con un’allusione mitica di suprema eleganza, questo squisito movimento e crea insieme questa dimensione verisimile-fantastica che inquadra tutto il canto e le sue verità non facili eppur reali nella superiore realtà paradisiaca.

A questo succede il breve movimento dei vv. 19-24, in cui il movimento interno della visione e dei paragoni si ripercuote in Dante con la lieve flessione degli occhi in dietro e in avanti e la muta interrogazione di Beatrice che nell’ultimo movimento (vv. 25-33) ritorna terrena (come era al primo verso del canto) nel colloquio con Dante, ma provvisorio e insufficiente, e rimanda a Piccarda e suggella autorevolmente il carattere di verità della visione e delle persone in essa apparse: «’l vero», «vere sustanze», «credi», «verace luce». Saldissima realtà e introduzione al tema centrale del canto: «la verace luce che le appaga».

Ed infatti nel secondo «tempo» (vv. 34-57) si intreccia subito il tema dell’ansia di Dante di verità e di esperienza con quello dell’appagamento della verace luce negli spiriti beati del primo cielo, e Piccarda sarà cosí coerentemente piú diffusa a chiarire questo punto che non la dichiarazione piú ampia del proprio nome succintamente presentato. Tutto il tempo è impiantato su forte avvio del colloquio fra attesa e gioia, sollecitato dai dubbi, dalla magica visione e dal primo contatto con persone paradisiache che per di piú si sono presentate cosí insolite e cosí diversamente poco corpose rispetto a quelle dell’Inferno e del Purgatorio. Colloquio, in quanto tale, teso dal desiderio di Dante smagato e quasi annullato dal desiderio nuovo (e in Donna pietosa questo forte verbo dantesco era già stato usato in un senso ben classificante: «e furon sí smagati / li spirti miei, che ciascun giva errando» – vv. 37-38) e dal desiderio piú pacato di Piccarda, la piú «vaga» di ragionare (e dunque quella che per le ragioni interne della sua scelta si profila già individuata entro una comune tensione dialogica delle anime, del suo contesto corale: la piú vaga) e disposta ad accogliere le richieste di Dante, «pronta e con occhi ridenti», intensi e fermi, simili a quelli di Beatrice, il cui ardore affettivo si commuta chiaramente in quello coerente di Piccarda, minor Beatrice di questo particolare avvio dell’esperienza interna del Paradiso.

E il tema corale dell’appagamento celeste e della disposizione della carità delle anime si presenta subito all’inizio della parlata cosí nitida e sillogistica (simile come schema alle parlate successive): carità e unificazione con la volontà di Dio, superamento del nome nella nuova storia cui essa partecipa e che le permette ora di riprendere la sua storia a questo nuovo sublime livello piú che personale di assoluto presente («qui», «questi», «questa»), di immedesimazione con una sorte generale che soprattutto le preme di mettere in rilievo come quella a cui la condusse la sua linea piú vera (da monaca a beata, taciute le ragioni private che sol piú tardi affioreranno) e in cui campeggiano le parole paradisiache: la corte di Dio, la bellezza nuova che accomuna lei agli altri beati mancanti di voti con un piú forte premere affettivo e spirituale e poetico appunto nell’annuncio della paradisiaca condizione della loro sorte («Li nostri affetti, che solo infiammati / son nel piacer de lo Spirito Santo, / letizian del suo ordine formati») e si compone equilibratamente nella spiegazione di quella apparente minorità della sorte dovuta al fatto che – come dicono le parole lievi, ferme e storiche – i loro «voti» furono negletti e «vôti» in una certa parte. Nitida precisazione di estrema chiarezza intellettuale che delimita e smorza, senza annullarla, la tensione iniziale piú forte in una sorta di modestia che si unisce alla letizia e alla consapevolezza della vera natura di una situazione ancora presente nel suo aspetto piú sollecitante e problematico-paradossale. Lo stesso giuoco sulla parola («voti», «vôti») ha tale funzione di smorzamento e di modestia, quasi di dissimulazione di una possibile pena.

Nella lenta, limpida scansione del canto, dove il tempo poetico ha perso il suo aspetto piú realistico (tempo come ansia e cura: via la fretta che è tipica dell’Inferno, via l’attesa troppo intensa del Purgatorio), alla risposta prima di Piccarda segue la nuova domanda di Dante che si articola e si tende con un’articolazione crescente ai moduli delle risposte, in un’ampiezza crescente, con un intreccio sapiente di entusiasmo, di crescere di esperienza e di colloquio, e di prezioso, eletto, aristocratico tono con cui il poeta-personaggio si avvicina (con un di piú di inquietudine caratteristica del suo esistere mondano) ai modi del linguaggio di Piccarda: «festino», «latino», accanto al piú approssimativo mistico «non so che divino». La domanda si svolge nelle particolari condizioni di un crescere di esperienza, di un chiarirsi concettuale e di un illuminarsi affettivo-mistico che tuttavia esita («Ma dimmi») sul gradino piú alto della risposta: la felicità «qui» e il possibile desiderio di un «piú alto loco», giustificato nell’ipotesi paradisiaca di un desiderio di «piú vedere» (cioè di vedere piú direttamente Dio, la sua accresciuta realtà nella maggiore vicinanza), di «piú farsi amici», cioè di entrare in relazione piú diretta con Dio («che nel capestro a Dio si fero amici» – Par., XII, 132), dove la parola amici nel linguaggio piú quotidiano e dell’esperienza mondana suggella questa ascesa paradisiaca di cui si caricano i termini contemplativi-affettivi inerenti all’ardente religiosità dantesca, a cui tuttavia manca ancora la misura di carità e di armonia distributiva in cui il Paradiso rivela la sua natura piú ancora che nella stessa rappresentazione diretta e nella spiegazione piú tarda, dato il tipico carattere di introduzione intima, sentimentale che è propria di questo canto e della sua funzione nell’economia della cantica.

Alla domanda di Dante (la successione delle domande e delle risposte si articola in una trama lucidissima quanto complesso e intenso è il tessuto spirituale e poetico del dialogo e dell’atmosfera in cui esso si svolge) la risposta di Piccarda, ancora piú chiaramente corale (e non a caso essa è al centro del canto e lo sostiene tutto con il suo tema fondamentale), è introdotta dalla lieve pausa che raccoglie il consenso di tutte le anime paradisiache nel sorriso concorde da cui Piccarda trae la forza del suo argomentare e l’ardente intima letizia che richiama nel canto la presenza viva del «primo foco», Dio. Ed è intonata dall’espressione caritatevole («Frate») e dalla tematica parola della «virtú di carità» e dall’equilibrio perfetto fra la volontà e il possesso. E desiderio e volontà sono il saldo termine dell’intreccio con carità e pace intorno al perno assoluto costituito dall’amore e dalla consonanza con Dio, in un limpido gorgo teologico-mistico in cui sarà da ricordare l’afflato di concordanza con numerose testimonianze religiose medioevali che salgono dalla risposta agostiniana del De Civitate Dei: «Atque id etiam beata illa civitas magnum in se bonum videbit, quod nulli superiori ullus inferior invidebit, sicut nunc non invident archangelis angeli ceteri. [...] Sic itaque habebit donum alius alio minus, ut hoc quoque donum habeat, ne velit amplius» (XXII, 30). Nonché del giovanneo «In domo Patris mei mansiones multae sunt» (XIV, 2).

Sicché le citazioni che ricorderemo confluiscono coerentemente nella tensione di inno composto e misurato che di tanto allontana questa risposta dai caratteri di una fredda lezione teologica. Ché qui la teologia è vissuta come esperienza teologico-mistica e proprio nel pieno di una tradizione che comportava (piú del solido mondo teologico tomistico) una sua possibilità di commutazione poetica.

Si ricordino, intorno al tema della pace, le parole spinte fino al paradosso della beata Angela da Foligno nella sua Via della salute: «Lo sommo bene dell’anima è pace verace e perfetta, sanza la quale pace nullo altro bene all’anima ragionevole basta. Dunque tutto lo studio dell’anima de’ essere ad acquistare pace verace in se medesima. E questa pace avere non può sanza perfetto amore del Creatore; dunque nel perfetto amore di Dio si truova riposo. [...] Ed acciò che possi comprendere la pace di questa anima cosí disposta, dicoti che se sapesse che a Dio piacesse ch’ella fosse nello ’nferno dannata, non ne avrebbe dolore»; o le parole di Giordano da Pisa nella predica del 20 aprile 1304 alle donne da Faenza (La pace dell’anima): «Le volontadi degli uomini sono molte e sono diverse: e tante diversitadi hae tra gli uomini quante sono le volontadi. [...] Quale è dunque la via a venire a questa pace e accordare insieme e fare un volere di tutte queste volontadi? Questo non può fare nulla creatura; ma solo Iddio. Questo si fa quando accosti e unisci la volontà tua e quella di Dio. Una volontà è quella – ciò dicono i savi – la quale è diritta e ch’è sopra tutte reina. Questa è la volontà di Dio, alla quale si dirizzano e possonsi dirizzare tutte le nostre volontadi: e se a questa regola e a questa dirittura non si dirizzano, giammai non possono essere diritte né concordate; e tutte le volontadi che alla volontà di Dio s’accostano e si dirizzano diventano una cosa».

Solo che in Dante piú forte è, nella tensione fantastica e costruttiva di una doppia realtà in scala e accordo (mondo e paradiso), il riferimento di queste componenti mistico-teologiche ad un’effettiva situazione paradisiaca; e se pace è la parola tematica della sua aspirazione di giustizia e di ordine mondano («ché sanza lei non è in terra pace», dice nel sonetto Se vedi li occhi mieiRime, CV, 14; e la Firenze antica è vista starsi «in pace, sobria e pudica» – Par., XV, 99; e Ottaviano Augusto è definito come colui che «puose il mondo in tanta pace, / che fu serrato a Giano il suo delubro» – Par., VI, 80-81), essa è chiaramente la parola suprema del regno della carità paradisiaca, sicché essa anche qui si imposta per la prima volta carica di allusioni e di riferimenti ad altri richiami della terza cantica:

Dentro dal ciel de la divina pace (II, 112);

E da essilio venne a questa pace (X, 129);

Si scalzò prima, e dietro a tanta pace (XI, 80);

E venni dal martiro a questa pace (XV, 148);

Oh vita integra d’amore e di pace (XXVII, 8);

Che solo in lui vedere ha la sua pace (XXX, 102);

Contemplando, gustò di quella pace (XXXI, 111);

Per lo cui caldo ne l’etterna pace (XXXIII, 8).

Sicché, se il linguaggio si intesse di forme latine scolastiche («necesse», «esto beato esse», come poi «etsi»), la parlata di Piccarda supera l’ambito di una crociana poesia della didascalica in forza della componente mistica che di piú accende la tensione intima e religiosa (tutto il canto è basato su di una esperienza intima) e le parole essenziali «carità», «disiri» e le varie forme della volontà (volontà, volontade, volere, voglia, invogliare) si snodano saldamente in una ascesa lirica che culmina, dopo l’intreccio del tema semantico e linguistico della volontà (fino all’ingorgo lucido di «che ’n suo voler ne ’nvoglia»), nella terzina finale dove «volontade» e «pace» si compongono in un verso mirabile di superiore letizia, di accensione misurata e luminosa, e nell’immagine grandiosa che riprospetta il grande tema cosmologico del I canto («onde si muovono a diversi porti / per lo gran mar de l’essere» – vv. 112-113) in una visione piú intima e spirituale che pure non sopraffà la precisione della distinzione logica («ciò ch’ella cria o che natura face») entro la volontà divina.

Sicché uno dei punti lirici piú alti della poesia dantesca è insieme una delle cime della sua suprema chiarezza intellettuale e riduce ogni sovrabbondanza, ogni pericolo di «smesuranza» mistica: a ben guardare, una chiave per introdurci nella fantasia creativa dantesca, per misurarne le qualità di poetica e di realizzazione di trama e di tessuto, nelle sue complesse direzioni perseguite con coerenza assoluta, per comprendere la poesia del Paradiso e le sue gradazioni, di cui questa del canto di Piccarda è particolarmente contraddistinta dalla salda tenuta di prospettive e di ritmo, di linguaggio, di immagini, sulla via di un’eccezionale «misura», sulla forza intima, come corrispettivo della aristocratica umiltà, modestia, autoconsapevolezza dell’equilibrio supremo che vive nelle condizioni stesse del personaggio (e poi del suo esempio rafforzante della figura descritta di Costanza), del personaggio individuato e corale che ci guida a misurare piú coerentemente il tono della sua stessa storia personale, lontana da ogni eccesso romantico e drammatico, come diremo piú avanti.

Il risultato della risposta di Piccarda è nell’apertura del nuovo «tempo» (vv. 88-120), nel suo primo movimento (vv. 88-96), quando Dante trae la conclusione della nuova esperienza paradisiaca (basilare ad aprire la prospettiva di tutti i personaggi della cantica) dal dialogo con Piccarda, la quale espande il piú sottile disegno della sua risposta in un’affermazione di letizia e di speranza sicura con un crescere di chiarezza e persuasione dopo la prima sua immagine che crea meraviglia e dubbi:

Chiaro mi fu allor come ogne dove

in cielo è paradiso, etsi la grazia

del sommo ben d’un modo non vi piove.

Poi, con una breve pausa riflessiva segnata dal «ma» e dal piú elementare contesto del paragone familiare con il cibo (sigla dell’esperienza sensibile da cui prende sempre spunto la fantasia dantesca anche nei piú vertiginosi impeti visionari profetici), una nuova domanda riepilogata per non spegnere l’accensione che ormai vibra entro la vita del personaggio di Piccarda e che si intona (e pur con sottile gradazione) ad una nota lirica del contesto e dell’esperienza sensibile nel paragone del voto e della tela incompiuta che porta un nuovo misurato fervore di usuale e tranquilla attività femminile (la quieta opera del tessere), al senso profondo di una vita mondana essa stessa cosí intima, pudica, riservata (Piccarda è pur uno dei personaggi della città, della Firenze antica e ideale travolta dalle vicende della stessa nobiltà presa nelle maligne spire di una società nuova e aborrita, senza «giustizia» e senza «pace»; di cui erano rappresentanti i suoi parenti stessi come l’odiato Corso e a cui aveva in parte ceduto il piú incerto e «purgatoriale» Forese, che ben ne aveva capito l’altezza, senza saperla, nelle proprie condizioni, imitare).

Come tutto nel canto si sviluppa in una progressiva chiarificazione e illuminazione (la visione dei personaggi affiora dalla loro incerta condizione di «specchiati sembianti» per poi reimmergersi in quel crepuscolo di luce incerta e perde contorni e voce in un coro che si allontana e in un lento calare nella nebulosa luce lunare), cosí Piccarda, sollecitata da Dante, presenta brevemente la sua storia personale ed esistenziale, ma nettamente inquadrata fra due personaggi maggiori (il piú grande a creare la prospettiva di umiltà e subordinazione in cui Piccarda si vuol collocare all’insegna di una «norma» superiore) e legata all’essenziale riferimento assicurato sin dall’inizio del «conformismo» alla volontà divina (canto di un religioso e superiore «conformismo» cui il titanico Dante attribuisce il valore superiore della vera pace spirituale) e allo spirito di carità richiamato nel punto piú sensibile della sua storia.

Il riferimento a santa Chiara ha appunto il significato di una voluta proporzione («perfetta vita e alto merto inciela / donna piú su») e in una «norma» precisata nell’abito e nel velo claustrale, norma che è come antitesi del «vostro mondo» (il distacco paradisiaco è assai diverso dalla nostalgia o dall’ansia turbata che il «mondo» provoca nei personaggi del Purgatorio e dell’Inferno) e che è norma di un «conformarsi», assoluto e senza termine, alla volontà dello sposo divino, che accetta ogni voto conformato dalla carità al suo piacere e cosí anticipa il conformarsi dei personaggi del Paradiso alla volontà di Dio. Dove l’assolutezza e la casta immagine dello sposalizio tolgono, nella sua suprema misura, ogni possibile unzione monacale e raccordano la storia (accennata) di santa Chiara, di Piccarda, di Costanza a quelle di san Francesco, di san Domenico, di san Benedetto, tanto piú esemplari ed espanse.

Tre storie, le prime, accomunate, d’altra parte, dalla femminilità claustrale, umili e modeste, ma investite dalla nobilitazione della prima, perfetta e paradigmatica, e dal tono piano e trionfale della terza, siglato dalla regalità. E la prima detta il modulo della norma, del velo e delle nozze mistiche che sottraggono al disordine passionale del mondo, mentre la terza chiarisce (piú di quanto l’accentuazione romantica del celebre verso 108 – «Iddio si sa qual poi mia vita fusi» – comporterebbe) la fedeltà profonda che rese degne Piccarda e Costanza del Paradiso (Costanza «non fu dal vel del cor già mai disciolta»), e riporta la sua luce modestamente trionfale e regale in tutto il «tempo» che ne è rialzato e raccordato ad una certa grandiosità mondana-celeste: il vento, potenza impetuosa e breve (la forza impetuosa dei due imperatori, Enrico VI e Federico II, di cui Costanza fu moglie e madre), rafforza l’immagine della «gran Costanza» inserita, malgrado le sue forzate nozze, in una storia grandiosa.

Tutto è calcolato e organizzato poeticamente e tutti i particolari concorrono ad un’unica e articolata storia di verità superiore in cui ritornano, dal punto di vista di Piccarda, i termini essenziali della vicenda umana e di quella interiore e paradisiaca che prevale: la perfezione e la dolcezza della vita claustrale femminile, l’assolutezza delle nozze mistiche che impronta di sé la fedeltà sostanziale ai voti promessi, la nostalgia della «dolce chiostra» che fa chiaroscuro con la minore, subíta condizione di castità matrimoniale imposta dalla violenza, la presenza appena accennata e velata di uomini «a mal piú ch’a bene usi» (cosí affermata e insieme smussata), la legge mondana della potenza e, su tutto, la protezione suprema del velo e dell’abito delle clarisse che guida il linguaggio e le sue forme piú persuase e profonde: «e cosí le fu tolta / di capo l’ombra de le sacre bende», «nel suo abito mi chiusi», «non fu dal vel del cor già mai disciolta»; forme leggermente impreziosite dal contrasto fra la violenza subíta e la fedeltà sostanziale.

Donde quell’impressione di continuità salda del tema claustrale che è sottilmente increspato, ma non veramente lacerato, dal celebre verso 108: «Iddio si sa qual poi mia vita fusi» (in cui la stessa parola-rima, nel suo profondo ed intimo segreto, ha una coerente resa anche fonica disacerbante). Storia che si replica da quella di Piccarda a quella di Costanza (unite dal chiasmo ideale dei due versi 112 e 117 – la comune rottura dello stato claustrale e la sostanziale consistenza del «velo del cor» – che riequilibrano le due storie, il loro piano comune di minore perfezione rispetto a quella di santa Chiara e di saldezza interiore che permette il paradosso di uno stato monacale conservato entro lo stato coniugale; storia scandita temporalmente dai passati remoti e dal succedersi dei «poi» che è il segno del tempo nell’atemporale pace claustrale e provoca un lieve movimento piú intenso e pur ricontemplato entro la luce ferma e disacerbante di un presente assoluto che recupera quello del presente, della continuità statica della pace claustrale di questa superiore chiostra lunare e paradisiaca e replica il fervore calmo e l’intimità femminile a cui ben si addice l’oscillazione fra la perfezione di santa Chiara e la passività esterna di Piccarda e Costanza alla violenza maschile, legata a quelle passioni, a quegli interessi politici, a quel vero disvalore che non ha presa nell’intimo dei loro cuori).

A lieve contrasto il ritmo piú soave e letificante della terzina che descrive la storia della monacazione e quello della terzina che descrive la violenza subíta (via «dal mondo», via dalla «dolce chiostra», «fuggi’mi», «mi rapiron»), ma in un contesto comune di alleggerimento musicale e semantico di eccezionale rarefazione e di superiore eleganza perfetta e nel crescere di un tono di malinconia che addensa la nostalgia del «fuor mi rapiron de la dolce chiostra» e che ben regola, in un impasto di tono di eccezionale misura e carità (non invettive, non condanne violente, non rappresentazione plastica e movimentata) che è ben essenziale anche al centrale verso 108 («Iddio si sa qual poi mia vita fusi»), che una tradizione romantica e realistica piú indiscreta e drammatizzante ha troppo isolato e scardinato dalla prospettiva vera in cui va letto e interpretato.

Perché io penso (e la storia dei commenti mi pare adiuvante) alla complessità di quel verso retto dalla testimonianza massima da parte di Dio della vera condizione della sua vita sottratta (con misura pudica e paradisiaca, con carità spirituale particolareggiante: «Iddio sa le mie pene segrete e la reale fedeltà al velo del cuore»). Che non è uno smorzamento impoetico né un compromesso comodo, se risulta cosí coerente al passaggio successivo, all’assicurazione dell’identità della propria storia con quella di Costanza (di cui si esplicita la fedeltà al «velo del cor»); cosí coerente a questa vita pacificata, a cui giunge solo il ricordo di pene segrete, non struggente e turbatore (il turbamento del cuore sarebbe una incrinatura impossibile nella superiore calma paradisiaca) e non scompagnato dalla certezza e dalla consapevolezza della fedeltà sostanzialmente mantenuta che sdoppia «velo del cor» e velo fisico e attenua, non distrugge, la sostanza della promessa fatta con la monacazione e le vere nozze mistiche.

Occorre insomma – a mio avviso – privarsi del dubbio acquisto di una profonda risonanza drammatica, come avverrebbe se alla storia di Piccarda si togliesse l’allusione, nota solo a Dio che è il solo testimone di un paradosso apparente (esplicitato nel matrimonio di Costanza sancito dalla nascita di un figlio) e il testimone invocato a render la verità dell’apparente contrasto, a unificare nel suo «si sa» la verità complessa di quella situazione di rinuncia involontaria e di volontaria fedeltà.

Si perderà in rilievo straziante, si guadagnerà piú correttamente in verità poetica entro un contesto cosí misurato e al massimo lirico-elegiaco, ma non certo lirico-drammatico. Alla retta interpretazione testuale e tonale ci aiuta, come dicevo, la stessa storia dei commentatori, specie di quelli piú antichi. E infatti solo con gli studiosi del periodo romantico e del periodo positivistico-naturalistico (che, con ipotesi del tutto falsate, assimilarono anche l’esilio ideale di Piccarda con l’esilio reale di Dante) l’interpretazione si fa univoca in senso drammatico: «verso pieno di lagrime», dice il Torraca; di «sofferenze nascoste, e di un tempo non breve» parla il Porena. Mentre prima, o appare una interpretazione nettamente antidrammatica, o (appoggiata alla leggenda della rapida morte di Piccarda per la malattia magari invocata come liberazione dalla contaminazione delle nozze) si screzia in rilievi piú incerti e neutri. Come fa Jacopo della Lana, che segnala solo un cambiamento esterno di condizione («Fe’ altra vita che la predetta vodada»), mentre l’Ottimo e Benvenuto da Imola accolgono la leggenda della malattia e accentuano la brevità della vita di Piccarda per salvarne la castità (Ottimo: «Dice qual poi la sua vita, che fu poca, ed a lei noiosa: ma tosto Cristo lei orante, caduta in languente infermitade, a sé la trasse quello sposo, al quale ella avea professa la sua virginitade»; e Benvenuto: «quia fuit brevis in corpore infirmo in sancto proposito», e cosí comunque accetta la versione della fedeltà non smentita); ma piú decisamente Francesco da Buti prospetta la storia in piena luce di positività: «E per questo vuole dare ad intendere l’Autore che la vita sua fu poi onesta e buona appresso la vita religiosa». E il Landino prosegue e sviluppa: «Non vuole lodarsi, et apertamente dire della sua onesta vita; ma vuole che Dio ne sia testimonio: o veramente, qual vita, quasi dica: con quanta molestia vixi et contra mia voglia fuori del monastero»; e spiega per Costanza, con simbologia lunare che deve esser tenuta di conto nella sua complessa accettazione dantesca: «ma nel matrimonio fu costumatissima et piena di tutte le virtú che influisce in noi la luna: et però dice che lei s’accende et risplende di tucto el lume di quella spera».

Piú tardi il Vellutello commenta: «Volendo inferire che, s’ella non poté servar la castità virginale, per esserle stato interrotto il buon proposito ch’avea fatto di servare, che almeno servò la matrimoniale, a la quale per forza era stata condotta»; e il Daniello: «volendo dimostrare che, se ben per forza fu tratta fuori della religione e maritata, non fu mai però (come di sotto di Gostanza parlando dice) disciolta dal vel del cuore». Mentre nel Settecento il Venturi riprende le due possibilità prospettate dal Landino e il Cesari avvia parcamente l’interpretazione che nel Romanticismo viene lentamente affermandosi per consolidarsi, come ho detto, nel periodo positivistico-naturalistico: «Parlar pietoso e naturalissimo di questa giovanetta, che avea nel cuore la castità della sua regola».

Ed ecco (a parte il Tommaseo, che sposta l’attenzione sulla perplessità di Dante circa la ricordata leggenda della malattia: «reticenza [...] ove Dante né afferma né nega la quasi miracolosa malattia che tolse Piccarda alle forzate nozze»), il Biagioli accentua la realtà fisica del dramma di Piccarda e la particolareggia piú impropriamente e psicologicamente («si può credere che le nuove nozze finirono con alienarla dal velo del cuore, e forse a piacerle a segno l’altra vita, che, potendo ritornare al santo loco, pur si ritenne in quella») e il Bianchi («Dio solo sa quanto triste e dolorosa fu poi la mia vita. Nel verso, che adombra mestamente tutta una vita, c’è la tristezza di una donna che a forza fu sospinta verso il mondo da cui si era spontaneamente staccata, a forza fu sposata ad un uomo che ella sentí come un violentatore») espande (ripreso sinteticamente dal Fraticelli: «con quanta afflizione io vissi dappoi, trovandomi fuori del monastero, combattuta dalla religione e da’ rispetti sociali, Dio lo sa») quella specie di abbozzo di romanzo e di dramma psicologico-naturalistico che condusse alle ricordate accentuazioni drammatiche e lacrimose del Torraca e del Porena.

Insomma, solo nei commentatori romantici e piú positivistici-naturalistici si finí per accentuare sproporzionatamente e indiscretamente l’aspetto delle sofferenze e di una condizione forzatamente peccaminosa, perdendo di vista proprio l’estremo riserbo e la sostanziale fedeltà al «velo del cuore» di cui è solo testimone Dio (e si noti come il verso è aperto e chiuso dalla forma elegantissima e significativa del «si sa» e del «fusi», due forme omogenee riflessive non certo casuali), a cui solo si affida la realtà di quella vita sottratta ai ricami leggendari e al pettegolezzo cronachistico. Sí che, alla fine, ciò che prevale è quel riferimento positivo alla testimonianza di Dio, e il verso si chiude in quel superiore colloquio lontano dalle voci mondane e digrada in forme di supremo riserbo. E del resto la somiglianza fra la condizione umana di Piccarda e quella di Costanza non avrebbe compiutezza senza la comune affermata fedeltà al «velo del cuore» mai dismesso.

Poi la storia di Costanza svolge quel tema, implicito nel verso 108, nella sua esplicitazione intera, entro un crescendo luminoso e sommessamente trionfale e con piú aperto valore del paradosso della leggenda guelfa accertata da Dante (come per Buonconte da Montefeltro e per Manfredi) e con la connessa figura dell’imperatrice beata per la sua fedeltà al velo del cuore che richiama la citazione del Convivio (IV, XXVIII, 9-10), in cui anche la citazione dell’Epistola ai Romani di Paolo («circuncisione del cuore») viene ad accrescere la tensione misurata dell’espressione: «E non si puote alcuno escusare per legame di matrimonio che in lunga etade lo tegna; ché non torna a religione per quelli che a santo Benedetto, a santo Augustino, a santo Francesco e a santo Domenico si fa d’abito e di vita simile, ma eziandio a buona e vera religione si può tornare in matrimonio stando, ché Dio non volse religioso di noi se non lo cuore».

L’ultimo breve tempo (vv. 121-130) riprende la situazione iniziale del canto piú visivo ed apertamente affettivo con la presenza di Beatrice, capovolgendone i termini di movimento della visione e riprendendo il paragone dell’acqua che assicura a tutto il canto l’unità visiva e tonale di questa specie di cielo in cui la luce lunare e la mediazione dell’acqua sembrano fondersi in una trasparenza che vela le figure e lo sfondo in una sorta di medievale Cathédrale engloutie di eccezionale vibrazione di luminosità e musicalità sommessa e cosí in accordo con la misura casta delle figure e della loro disposizione sentimentale.

La visione era affiorata debole e diafana, e ora scompare a poco a poco assecondata dal canto mariano e dal ritmo che lo spezza e continua mediante l’enjambement («Ave / Maria»), la replicazione dei gerundi continuativi («cantando, e cantando vanio»), la lentezza dell’affondare della cosa grave nell’acqua cupa: non note di raffinata antologia frammentistica, ma organici momenti di un insieme unitario, visivo-musicale-ideologico, composto e aristocratico come l’etimo ispiratore del canto.

E il movimento dell’allontanarsi della visione e del canto mariano è prolungato dai movimenti degli occhi di Dante fino alla scomparsa di ogni traccia percepibile con un procedimento analitico di riduzione al minimo, che provoca poi lo scatto (e la conclusione di un’operazione poetica cosí perfetta nel suo ritmo, nella sua scansione, nella sua compiutezza fra apertura e chiusura) con cui Dante si rivolge a Beatrice («La vista mia [...] a Beatrice tutta si converse»), colpito dal suo accresciuto sfolgorare che provoca in lui una nuova sopraffazione dei sensi e lo lascia nuovamente, come al principio, quasi smemorato e carico di ulteriori desideri di nuova esperienza e di nuovi acquisti di conoscenza entro la spirale di desideri e di risultati che è la scala stessa del Paradiso come regno dell’esperienza sensibile-interiore-intellettuale, della continua «aggiunta», del dialogo come mezzo del lento accrescimento di potenza dei sensi e della mente, a cui il canto III ha offerto il primo grado (con sfondi e personaggi concreti), al di là della grandiosa impostazione cosmologica del primo canto e al di là (e dentro) la prospettiva di acquisizione teologica e scientifica del secondo canto.